Elena Ferrante non ha certo bisogno di presentazioni. Nata e cresciuta a Napoli nel ‘43, è una delle penne più apprezzate del panorama nazionale e internazionale, difatti il Time l’ha inserita tra le 100 donne più influenti del mondo.
Da L’Amica Geniale a L’Amore molesto, da La figlia oscura a La vita bugiarda degli adulti, l’autrice ha all’attivo opere che discendono direttamente negli oscuri abissi della fragilità umana.
Non ha mai rivelato la sua vera identità, parlando del desiderio di autoconservazione del proprio privato, un desiderio di mantenere una certa distanza e non prestarsi alla spinta che alcuni scrittori hanno di mentire per apparire.
Scelta apprezzata da molti, ma che forgia inesorabilmente una naturale curiosità.
Oggi parlo di un’opera scritta nel 2002, I giorni dell’abbandono.
Trama
Sullo sfondo di un’apparente serenità familiare, il romanzo parte con la dichiarazione di Mario, uomo immaturo, egoista e tendente al vittimismo, di voler lasciare Olga, la donna con cui ha condiviso 15 anni di matrimonio.
Senza dare alcuna spiegazione, come era solito fare durante le loro crisi coniugali che ogni tanto facevano breccia nelle abitudinarie vie del matrimonio, Mario lascia Olga da sola con due figli e un cane,tirando fuori un generico “senso di vuoto” dietro il quale nasconde la sua vigliaccheria, e facendo precipitare Olga in un gorgo oscuro e antico.
Se le altre volte però Mario ritornava sui suoi passi, questa volta non sarebbe più tornato.
In tutti quegli anni il sentimento predominante su cui si era basata la loro relazione era la quiete, soprattutto per un desiderio da parte di Olga di volersi distaccare dagli atteggiamenti rumorosi e sguaiati delle sue origini napoletane, così come dallo stereotipo della “poverella” abbandonata dal marito in crisi di mezza età, imponendosi un’autodisciplina che, dopo l’abbandono del marito, non saprà più gestire.
(…) aspettare con pazienza che ogni emozione implodesse e prendesse la via della voce pacata, custodita in gola per non dare spettacolo di [sé]
Pertanto Olga, segnata dal dolore e dall’umiliazione, viene risucchiata dai fantasmi della sua infanzia, che si impossessano del presente e la chiudono in una alienata e intermittente percezione di sé. Comincia a questo punto una caduta rovinosa che mozza il respiro, un racconto che cattura e trascina fino al fondo più nero, più dolente dell’esperienza femminile.
(…)ebbi un moto interno, una scossa così intensa di dolore, che le lacrime mi sembrarono frammenti di un oggetto di cristallo custodito a lungo in qualche luogo segreto e ora, a causa di quel moto, esploso in mille pezzi lancinanti.
Recensione
“La voce rabbiosa, torrenziale di questa autrice è qualcosa di raro”, scrive il New York Times,mentre l’autrice di Amabili resti, Alice Sebold, commenta così l’opera della Ferrante: “Ho letto questo romanzo in un giorno, obbligandomi a prendere respiro come fa un nuotatore. I giorni dell’abbandono è stellare”.
Personalmente, non so come definire quest’opera della Ferrante, la cui penna è sublime e carica di significati, colta e raffinata, tuttavia c’è qualcosa nella narrazione che non mi ha convinta fino in fondo.
Il personaggio di Mario è senza dubbio quello più odioso. Il classico uomo di mezza età che rincorre lo stereotipo di colui che lascia la famiglia per la ragazzina più giovane, dominato dalle pulsioni più primitive dell’essere umano.
Non si prende alcuna responsabilità, facendosi scudo col suo egoismo, un vigliacco patologico che non è in grado di ammettere gli errori commessi.
E poi c’è Olga, una donna distrutta dal dolore, il cui racconto del proprio stato d’abbandono è sì commovente, ma a tratti anche angosciante.
Se fossi partita da lì, da quelle mie emozioni segrete, forse avrei capito meglio perché lui se ne era andato e perché io, che al disordine occasionale del sangue avevo sempre opposto la stabilità del nostro ordine di affetti, ora provavo così violentemente il rammarico della perdita, un dolore intollerabile, l’ansia di precipitare fuori dalla tessitura di certezze e dover reimparare la vita senza la sicurezza di saperlo fare
Pur lucida nel suo “cadere a picco”, non riesce a gestire gli stati d’animo che si impossessano di lei. Sa di dover frenare la degenerazione che la guida verso il ciglio del burrone della sua disperazione, ma non fa nulla (o quasi nulla) per opporsi alle sue fratture emotive.
Certo, non è facile ritrovare un equilibrio quando quelle certezze con cui hai costruito un’intera vita scivolano improvvisamente via dalle tue mani, ma ho trovato alcuni suoi gesti e comportamenti totalmente incomprensibili e ingiustificabili, snervandomi con la sua mancata presa di coscienza.
Per fortuna, alla fine del romanzo riesce a incollare i cocci e a tornare ad una normalità a cui lei stessa si aggrappava prima di perdere tutto, tuttavia, nonostante il mix autodistruttivo e doloroso di una donna defraudata della propria dignità, non sono riuscita ad empatizzare con lei.
Scritto in prima persona, la lettura è scorrevole e ben calibrata, almeno all’inizio, poi l’ho trovata ripetitiva e ridondante.
Ciò non toglie che la penna della Ferrante sia un patrimonio nazionale.
Ho apprezzato molto quel calarsi appieno nella sofferenza di chi (come Olga) crede di non aver più nulla da offrire, senza un briciolo di amor proprio e retrocessa a macchietta di se stessa, ossessionata dal passato e incapace di immaginarsi un nuovo avvenire, in uno stallo degradante che spinge il lettore a voler “reagire” al posto suo, così come ho apprezzato la sua (seppur lenta) auto-rigenerazione, riappacificandosi interiormente con la donna che era e vuole essere.
Esistere è questo,pensai,un sussulto di gioia, una fitta di dolore, un piacere intenso, vene che pulsano sotto la pelle.
(…)non avevo più da sgomentarmi, ogni movimento era narrabile in tutte le sue ragioni buone e cattive, che era tempo di tornare alla robustezza dei nessi che annodano insieme gli spazi e i tempi
Forse non lo rileggerei una seconda volta, ma resta pur sempre un buon libro, capace di offrire spunti di riflessione anche su un tema che, seppur potrebbe non toccarci da vicino, analizza con meticolosità i vari stadi dell’abbandono, uno tsunami paragonabile ad un lutto improvviso che passa dalla negazione alla rabbia, saltando dall’elaborazione alla depressione, per poi arrendersi all’accettazione.
Nell’angoscia di questa donna ferita, potremmo guardare negli occhi noi stessi, e capire che nessuno, per quanto possa dichiararsi immune da qualsivoglia tipo di frattura dell’anima, viene risparmiato dalla paura di perdere quelle che una volta chiamava certezze.
⭐️⭐️⭐️
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